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  • Immagine del redattoreAssociazione Culturale La palma e l'ulivo

Antichi effluvi di erbe spontanee

Nella realtà odierna, l’uomo non ha più il bisogno di spingersi alla raccolta di erbe per sopravvivere, ma è tuttora presente, in ognuno di noi, il piacere di procurarsi quel qualcosa di “naturale”, che riesce ancora a crescere, malgrado tutto, in qualche area marginale. Dedicarsi alla ricerca e alla raccolta di erbe consente di riavvicinarsi alla natura, di guardare con occhio diverso e meno distratto la vegetazione che ci circonda, di viaggiare a ritroso nel tempo, seguendo le tracce di coloro che prima di noi hanno compiuto gli stessi gesti e provato la stessa soddisfazione nel contemplare il proprio prezioso raccolto, di ritrovare sapori, aromi e profumi ben diversi da quelli a cui siamo abituati. Dedicarsi alla ricerca e alla raccolta di erbe permette infine di osservare che la varietà è bellezza e ricchezza, e che rispettare la biodiversità è un modo per consentirle di esistere. In poche parole “andar per erbe” è un regalo che facciamo a noi stessi, a chi condivide le nostre idee, ma soprattutto a chi verrà dopo di noi.

Le piante aromatiche occupano un posto importantissimo in tutte le culture fin dalle epoche più remote. Le tavolette cuneiformi dei palazzi assiri, i papiri egizi e le iscrizioni micenee tramandano i nomi di molte di queste erbe, usate sia per scopi terapeutici sia come olii aromatici o per confezionare ghirlande, corone e cosmetici. Nate nel grembo della Grande Madre Terra, molte di queste erbe avevano una funzione importante nei rituali di iniziazione e nelle pratiche funebri, come nel caso dell’origano, della menta e del rosmarino con cui nel mondo greco si frizionavano i cadaveri per preservarli più a lungo. Da Esiodo (VIII sec. a.C.) sono numerose le testimonianze letterarie che citano erbe spontanee mangiate come verdura cotta o cruda, aggiunte a pietanze a base di carne e pesce o inserite in impasti di pani e dolci sotto forma di semi, steli e foglie, germogli e radici. Il buonsenso di quegli usi alimentari, culinari e inconsciamente salutistici, si manifesta ancora oggi nella cucina siracusana che coniuga la ricerca del piacere organolettico con le virtù salutistiche di erbe e piante aromatiche, veri “condimenti” di base assieme al sale e all’olio d’oliva.

Nel IV secolo a.C., Archestrato, scrittore gelese - ma a detta di molti studiosi siracusano - nel suo poemetto “Hedypàtheia” (Poema del buongustaio) cita un’erba molto importante nella cucina del suo tempo e scomparsa da secoli: il sìlfio. Era una pianta del genere “ferula”, un’ombrellifera simile ad un sedano carnoso con le foglie divergenti e infiorescenza globulare. La varietà più ricercata cresceva selvatica solo sulla costa di Cirene (colonia greca nell’attuale Libia) che vi costruì sopra una vera e propria fortuna economica al punto da raffigurarla nel conio delle proprie monete. Una coppa (kylix) del VI sec. a.C. rinvenuta nella città etrusca di Vulci, raffigura il re di Cirene Arkesilas mentre sovrintende alla pesatura del sìlfio attorniato da servi e animali esotici a sottolineare il valore anche simbolico dell’azione. Sappiamo che nel mondo greco e anche in quello romano (dove il sìlfio era chiamato laser o laserpicium) le parti verdi e le grosse radici venivano spremute per estrarne una resina che, una volta essiccata al sole e ridotta in panetti, si vendeva a peso d’oro. La si usava grattugiata su ogni genere di vivanda e si impiegava anche come cosmetico, afrodisiaco, medicamento, antidoto ai veleni e addirittura contraccettivo. Gli steli del sìlfio venivano arrostiti, saltati in padella o bolliti; le parti più tenere si consumavano crude e intinte nell’aceto mentre quelle più dure erano date in pasto alle pecore per rendere le loro carni dolci e tenere. Fu anche questo utilizzo mangimistico, unito alla scriteriata raccolta e alla crudele desertificazione del Maghreb che causò la scomparsa del sìlfio già nel I secolo a.C., tanto che secondo Plinio l’ultima pianta di silfio raccolta in Cirenaica fu donata all’imperatore Nerone. Dal canto suo Strabone sostiene che la causa dell’estinzione del silfio fu solo il profitto, ommeglio l'avidità dei governatori della provincia romana Creta et Cyrene, della cui corruzione parla Cicerone nelle Verrinae.

Archestrato non pare amasse l’abuso de sìlfio in cucina, com’era costume dei cuochi siracusani che egli accusa di “imbrattare malamente ogni cosa di cacio e mainandola di fluido aceto e di vischiosa salamoia al silfio”. Lui amava gli ingredienti di pregio, rari e costosi, aromi raffinati ma soprattutto i condimenti misurati a base di erbe odorose, come nel caso della torpedine cotta in olio, vino ed essenze aromatiche o di un intingolo confezionato con “olio, cumino, ed erbette spiranti odor soave”.

Aglio, menta, rosmarino, ortiche, basilico e prezzemolo compaiono non solo in Archestrato ma anche in molte opere letterarie e drammaturgiche greche, così come le ortiche e altre erbe spontanee come la colocasia, una pianta sempreverde dalle grandi foglie (che non si mangiavano) con una grossa e polposa radice che svolgeva un po’ la funzione delle nostre patate in molte ricette. A differenza delle cipolle, l’aglio era poco amato da cuochi siracusani, pur comparendo in qualche ricetta di pesce associato al silfio. La misteriosa “erba Moly” che permette a Ulisse di resistere agli incantesimi di Circe, è descritta nell’Odissea come una pianta dal candido fiore e dalla nera radice. Alcuni botanici la identificano con una varietà di aglio selvatico, altri la individuano nella ruta, entrambe ben presenti nella campagna siracusana. Si faceva uso alimentare anche di piante da fiore, come la rosa, il gelsomino e il gladiolo, richiesto oltre che per il suo valore nutritivo, anche per il suo effetto lassativo. Un’altra erba oggi scomparsa era la cosiddetta “erba pazienza”, utilizzata per stuzzicare l’appetito, mentre la malva e l’asfodelo, come ci ricorda Esiodo, venivano consumate in tempo di carestia.

Il nome di alcune erbe spontanee spesso ne sottolineava una caratteristica peculiare, non di raro in senso poetico, come nel caso di chlòe (germoglio, dal greco chloròs per verde) - che era anche un epiteto di Demetra, dea dei raccolti - col significato di "giovane", "fresco”. Anche il termine phylla ha un carattere simile visto che appare in alcuni contesti associato a euòde (aromatico) con il significato di “erbe fini”, o “mazzetto odoroso” che Archestrato raccomanda nella preparazione dello squalo karcharias stufato e che Glauco inserisce nell’hyposphagma, un condimento per le carni a base di sangue bollito, miele, latte, formaggio ed erbe aromatiche.

Nel “Quadro storico della botanica in Sicilia” scritto nel 1845 da Francesco Tornabene, professore di botanica all’Università di Catania, si può leggere:

Fu greca alla botanica in Sicilia, e questa scienza era allora allo stato in cui vediamo tutte le scienze naturali nei loro primordi: senza teorie, senza esatte osservazioni e solo riposta nelle applicazioni immediate ai bisogni della vita, alla medicina e all’agricoltura, cosicché nei libri dei medici e dei rizotomi bisogna leggere le prime idee di botanica… Acrone agrigentino, mentre fondava l’empirismo medico, studiava l’influenza delle meteore sui corpi organizzati e frattanto scriveva sulle “regole del diritto” così da mantenere e acqui-stare la buona sanità. Plinio rammenta che al medico catanese si deve avere il ritorno all’uso terapeutico del basilico e del prezzemolo. Simile lavoro era quello di Filistione di Catania ed è facile arguire che i due medici siciliani possedevano numerose conoscenze delle proprietà mediche delle piante sia impiegando le intere sia preparate. E poi il libro dei “succedanei” scritto da un medico distinto e un botanico non volgare, perché vi si trovano molte erbe da sostituire alle medicine ordinarie.…, il quale avendo lo scopo medesimo. In questo mentre, Menecrate di Siracusa valentissimo nell’arte salutare pubblicava le sue opere sui “farmaci e loro composizioni in antidoti” nonché altre di cui solo i titoli ci restano presso Galeno; ma dai pochi brani che rimangono, tutti di suo conio, può rilevarsi la conoscenza profonda che aveva nelle virtù delle erbe, delle gomme, delle resine, dei succhi. Dal medesimo Galeno è ricordato “Orto siciliano”, del quale riferisce due preparati farmaceutici, composti di erbe, utilissimi in molti mali che appaiono alla cute della testa. Quanto valessero le conoscenze di Archestrato da Gela, Terpsione e Miteco siracusani nell’impiegare le piante aromatiche per la preparazione dei cibi a solletico delle rinomate mense sicule lo si vede nelle opere di “Gastrologia” e “Gastronomia” che scrissero e rammentano Platone ed Ateneo. Mentre i medici erano intesi alla cura dei mali impiegando le piante, i geoponici davano opera per ottenere dalle piante medesime il massimo e migliore prodotto. E già l’agricoltura era per tutto diffusa, si coltivava dal popolo, si studiava dai ricchi, si onorava dai Re. Archia conducendo le greche colonie per fondare Siracusa, si accompagnava con i Caldiciri, i quali a similitudine degli Eloti erano abili nella cultura dei campi e si distinguevano dagli altri cittadini per il segno del Pegaso che portavano addosso. Gelone tiranno di Siracusa otteneva dai siculi campi tanta copia di frumento che ne somministrava tutto l’esercito greco pugnalando contro Serse e ne inviava a Roma larghe provviste senza volerne mercede o ritraendone modico prezzo. Gelone giudicando l’agricoltura ornamento del suo trono discendeva dal soglio e tra i canti di Pindaro, Simonide, Bacchilide ed Eschilo, tra le politiche discussioni e le greche dottrine si piaceva condurre i siracusani in campagna per insegnarvi la coltivazione dei campi, dettarvi un suo trattato di agricoltura del quale molto si avvalsero Plinio, Varrone e Columella. Tanto botanico sapere in Sicilia rese comune ad ogni classe di gente il fitognostico studio; i vegetabili non solo si miravano ma in tutte le loro parti venivano dagli artisti interrogati, se tanto ci è lecito ricogliere nelle stoviglie greco-sicule dove l’edera, l’alloro, la vite sono dipinte con tal verità che senza scientifiche conoscenze ciò non si può operare. Sono poi veramente mirabili a paragone delle altre nelle medaglie greche in Sicilia quelle, dei conii di Nasso, Taormina, Catania, Tindaro, Calata, Agrigento; le spighe del frumento nelle medaglie di Lentini, Siracusa e Eraclea; i grani d’orzo in quelle di Lentini, Adrano, Agrigento; le foglie di sedano e stanno nelle medaglie di Selinunte, lo zafferanone nelle medaglie di Centuripe.”


Aprile 2022

Sergio G. Grasso


Da un Tacuinum Sanitatis del XIV sec.

“Commentarii” di Pier Andrea Mattioli sull’opera di Dioscoride, stampata a Venezia nel 1554

Dioscoride di Anazarbo (I sec. d.C.) autore del trattato Sulle erbe mediche.







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